Il cigno nero

E così è arrivato.
Senza fare troppo rumore e, soprattutto senza annunciarsi, il cigno nero, l’evento imprevisto che sconvolge gli ordini precostituiti, ha squadernato in poche settimane tutte le dinamiche preesistenti, mandando a gambe all’aria le solide democrazie occidentali, tutte unite dalla medesima reazione inadeguata di fronte alla sua unicità.
Tutti, ma proprio tutti, hanno risposto più o meno allo stesso modo di fronte alla più grande e imprevista emergenza globale dei nostri tempi.

Non ci sono state invasioni di qualche stato ad annunciarne l’arrivo, non sono cadute bombe e nei supermercati, per ora, c’è ancora il cibo. Si fa quindi fatica a percepirne a fondo la reale portata.
Il cigno nero- che stavolta si chiama covid-19- ha preso il mondo alla sprovvista, mandando in tilt tutti i Governi che, incapaci perfino di riconoscerlo nonostante gli svariati campanelli d’allarme, hanno reagito affondando la testa sotto la sabbia, in un estremo e controproducente gesto di negazione del problema.
I Governi, più preoccupati a salvaguardare le già fragili economie e i voti dell’establishment industriale, hanno minimizzato la pericolosità del virus, aumentandone, di fatto, gli effetti devastanti sia sull’economia che in termini di vite umane, ridotte a una mera conta di vittime senza nome.
I cittadini, poco rassicurati dalle scomposte reazioni governative, hanno iniziato a perdere quel briciolo di fiducia rimasto- dopo decenni di mal governo- preferendo affidarsi alle lusinghe delle varie teorie di complotto in circolo, nel vano tentativo di placare quell’inquietudine alimentata dall’assenza di una progettualità.
Un’assenza che ogni giorno si è fatta più pesante e che ha esposto tutti i cittadini, dai medici lasciati senza dispositivi di protezione ai malati abbandonati febbricitanti nelle loro case, a un inesorabile destino che doveva e poteva essere evitato.
Si sapeva cosa stesse succedendo a Wuhan, pur con tutti i limiti imposti dalla censura statale cinese, eppure non si è predisposto un piano per affrontare il worst case scenario.
A febbraio, solo grazie all’intuizione di un’anestesista che, sforando i protocolli vigenti ha effettuato il tampone al paziente 1 di Codogno, si è iniziato ad attuare le misure di contenimento e protezione negli ospedali.
Ma era troppo tardi.
I focolai ospedalieri erano già fuori controllo, inondati da polmoniti atipiche curate da medici senza protezioni e in reparti di medicina generale dove il virus ha banchettato senza freni.
Troppo tardi anche per iniziare, forse, quella sorveglianza attiva promossa da Crisanti in Veneto , grazie alla quale abbiamo capito che gli asintomatici sono quasi il 50% dei positivi.
Con tutto quello che ne deriva.
Troppo tardi per reperire le mascherine per i cittadini (che quindi sono state definite inutili) e i dpi per gli operatori sanitari.
Troppo tardi per cercare di arginare uno tsunami inarrestabile che ha travolto una sanità già fiaccata, mietendo migliaia di vittime condannate a una morte disumana.
Eppure, nonostante la dolorosa visione dei cortei di bare a Bergamo e la conta inesorabile delle vittime, troppi amministratori hanno ancora esitato a tirar fuori la testa dalla sabbia per affrontare con decisione il problema.
Magari approfittando, come nel caso del Centro e del Sud Italia, del vantaggio temporale per mettere in atto misure di contenimento più incisive, attingendo agli esempi virtuosi della Corea del Sud e di chi, al Nord, era riuscito ad arginare il problema.

Iniziando a localizzare, tracciare e, finalmente, isolare il virus con l’utilizzo massiccio dei tamponi.

Portando avanti una diversa gestione dei sintomatici costretti a casa, prevedendo una profilassi volta ad evitare aggravamenti che necessiterebbero di ospedalizzazione e gestendoli in strutture di contenimento che non siano i nuclei familiari. Per evitare i contagi a grappolo e tutto quello che abbiamo visto, drammaticamente, nei reportage da Wuhan. E che non voglio nemmeno ricordare.
E invece niente.
Nonostante le raccomandazioni dell’OMS e di tanti scienziati, non si è proceduto ad affiancare alla sacrosanta quarantena le misure di tracciamento dei positivi e dei loro contatti per isolare i contagi, e così il Centro e il Sud hanno eroso, ancora una volta incredibilmente, l’iniziale vantaggio preferendo nascondersi dietro la quarantena che tutto risolve, evitando di sporcarsi le mani e restando in balia degli eventi.

Salvo chiedere ai sanitari e ai cittadini una maggiore responsabilità. Come se la cura risiedesse lì e non nelle misure consigliate dall’OMS: testare, isolare e tracciare.

Questa è la ricetta che, a quanto pare in Italia, vale solo per pochi eletti. Giornalisti, calciatori e presidenti di partito imboscati dall’inizio dell’emergenza in qualche clinica privata.
Escludendo dal tracciamento, attraverso i tamponi, quel personale sanitario che dal primo momento lotta in prima linea per salvarci da una fine tristissima, abbiamo aperto anche a Roma e al sud la strada al coronavirus, riservando, ancora una volta, il privilegio dei test ai soliti noti. Che a salvarci non ci pensano proprio.

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